confronto colorimetrico della colatura di alici

 

Se qualcuno ci avesse detto, quella sera di dicembre del 1993, che ancora oggi avremmo parlato di colatura, il più educato di noi gli avrebbe dato del matto. Era la prima volta che si dava dignità pubblica a questo prodotto. Lo facemmo quasi con pudore, superando le iniziali perplessità, con l’entusiasmo degli organizzatori e la qualità dei relatori e degli interventi.

E invece è andata proprio così. Ad oltre un quarto di secolo di distanza, c’è ancora tanto da dire sulla colatura, a partire dalla sua denominazione. Per noi di Cetara, ma anche per i non moltissimi che già l’apprezzavano e ne richiedevano all’amico o conoscente cetarese la preziosa bottiglietta, per il singolare omaggio prima di Natale, bastava chiamarla Colatura, senza ulteriori specificazioni. Non c’era bisogno che dovesse essere ‘di alici’, perché nessuno si sarebbe sognato di immaginarla ottenuta dalla lavorazione di altre specie ittiche. E tanto meno ci si immaginava di dover specificare il luogo di provenienza: di Cetara, ovviamente, e chi avrebbe potuto dubitarne? Ma con il tempo, la sua crescente notorietà, lo sviluppo della produzione con i molti dubbi su materie prime e processi utilizzati, in una parola con l’economia che giustamente ha cominciato a crescere attorno al prodotto, il percorso si è complicato, divenendo a tratti scivoloso e pieno di sorprese. Non era possibile restare a guardare.

Abbiamo fatto fatica ad accettare l’idea di vederne tante in giro di colature. Ci ha colpiti la scoperta di un prodotto analogo nella terra del Sol Levante: lo shottsuru, nel nord del Giappone. Dell’esistenza del nuoc nam in Vietnam e Tailandia già sapevamo. Negli ultimi anni ci siamo imbattuti in colature prodotte in diversi luoghi d’Italia. Alcuni plausibili, perché anch’essi noti per la tradizione della salagione delle alici, altri piuttosto improbabili, frutto di scelte mosse dal consueto calcolo economico di chi fiuta l’affare e prova ad imitare. Ma non ci ha sorpreso più di tanto. È il destino delle produzioni tipiche italiane, da quelle di più vasto mercato, come i grandi formaggi e i prosciutti, a quelle più di nicchia, come la nostra Colatura, ben presto finita nella numerosa compagnia dell’elenco ministeriale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali. E così, agli inizi del ventunesimo secolo, solo grazie all’intuizione di Slow Food di Carlo Petrini, con lo strumento dei Presidi, riuscimmo ad approntare un primo tentativo di tutela del prodotto, la nostra Colatura. Per salvaguardarne qualità e regole di processo, scrivemmo un disciplinare di produzione, aggiungemmo l’aggettivo tradizionale, sottolineammo il complemento di specificazione di alici e l’indicazione del nostro paese, Cetara.

Ed oggi, in attesa che si realizzi l’ormai vicino obiettivo del riconoscimento della Denominazione di Origine Protetta (DOP) per la Colatura di alici di Cetara, per districarci fra le tante varietà di colatura abbiamo sottoposto il nostro prodotto identitario ad un percorso di valutazione sensoriale.

Fin dal 2002 ci eravamo interrogati su come costruire un metodo per comparare le colature, consapevoli della difficoltà di applicare le tecniche di analisi classiche ad un prodotto con caratteristiche così specifiche e sicuramente non codificate. La molla definitiva è scattata quando ne abbiamo ‘inventariate’ quasi venti varietà. Non si poteva più attendere. Da oltre due anni ci lavoriamo con un gruppo di una dozzina di amici esperti. Riusciremo mai a definire la colatura migliore? Noi ne siamo convinti, ce la faremo: è quella di alici di Cetara.

di Secondo Squizzato
Coordinatore Comitato Tecnico Scientifico
Associazione per la valorizzazione della Colatura di alici di Cetara

(Tratto da lagazzettadeisapori.it)